Le agitazioni dei riders e degli addetti alla logistica, dai magazzinieri ai corrieri, non gettano luce solo e soltanto sull’attuale frontiera dello sfruttamento. A ben guardare, se si ha volontà di farlo, oltre alle angherie subite da facchini e corrieri – spesso non direttamente dipendenti delle big firms ma assunti da cooperative di vario genere e colore – c’è molto altro; quello è forse solo l’epifenomeno. In queste righe cercherò di analizzare il rapporto che intercorre fra la centralità della logistica e le problematiche inerenti i contratti di lavoro fino a giungere a qualcosa che appare totalmente scollegato dagli hub di scambio delle merci, l’e-commerce ed il concetto di delivery. Premessa indispensabile, un piccolo accenno al ruolo dell’ICT (Information and Communications Technology) all’interno del sistema produttivo mondiale, dove “produzione” fa riferimento a beni materiali e immateriali.
I servizi sono intimamente legati alla produzione di merci fin da quando si è cessato di produrre per i bisogni strettamente necessari alla comunità locale, specializzandosi nella produzione di determinati beni e cominciando a scambiarli con altri siti specializzati in altri beni e così via. Questo ha dato origine al mercantilismo e a una visione dinamica della produzione; nel momento in cui si è cominciato a produrre per un altrove si è giocoforza messo in moto un meccanismo complesso. Dall’ovvia necessità di mezzi e vie di comunicazione si è passati alla meno ovvia necessità di assicurare merci e mezzi (navi in primis) fino a giungere alle ancor meno ovvie transazioni finanziarie sui prezzi futuri, sugli utili ancora da realizzare, titoli generati degli interessi futuri, fino a vere e proprie scommesse sul naufragio o meno di questo o quel carico. Chi pensa che la finanza creativa e la cartolarizzazione siano una prerogativa dell’era digitale si sbaglia: sono pratiche note fin dal 1700.
I servizi al commercio non sono però solo finanziari: non servono solo mezzi e vie di comunicazione, serve una schiera di servizi concatenati gli uni agli altri che hanno costituito l’ossatura sulla quale si è avuto l’impulso agglomerativo che ha generato le grandi aree urbane del pianeta. Londra e New York, prima ancora di essere quelle modernissime global cities che conosciamo,[1] sono state sedi di porti storicamente strategici attorno ai quali si è addensato un tessuto produttivo che non ha avuto precedenti nella storia umana. L’incedere del processo di integrazione globale, che per inciso non comincia negli anni ’90 ma semmai in quel periodo giunge a compimento, ha posto in essere una rivisitazione completa dei paradigmi produttivi che hanno funzionato e retto l’economia mondiale fino agli anni ’20 del ’900.
Lo sviluppo di sistemi di comunicazione sempre più stabili, sicuri e veloci ha reso possibile la gestione di risorse a distanza: la sola radiocomunicazione (già in codice morse) ha consentito di abbattere i fattori di rischio di naufragio a tal punto da poter assicurare anche piccole imbarcazioni, implementando di fatto la massa di merci trasportate a medio raggio. Stanti questi presupposti è facile immaginare che la comunicazione satellitare e internet abbiano costituito una vera e propria accelerazione di un processo già in atto, quello della delocalizzazione produttiva e del relativo trasporto di semilavorati in lungo e largo per il mondo. Le filiere produttive e le relative catene di valore si sono ampliate oltre i confini regionali e nazionali fino ad assumere l’attuale configurazione di catene di valore globali. Come però sappiamo da qualcuno più in gamba di noi, cambiamenti quantitativi inducono cambiamenti qualitativi sostanziali,[2] nel senso che il propulsore che genera valore non è tanto quello che produco ma il vantaggio economico che ottengo in funzione del luogo nel quale produco. È cioè il contesto socio-economico che genera per buona parte il vantaggio competitivo, se sono il solo a produrre quel determinato bene o servizio con quelle caratteristiche o a quel determinato prezzo.[3]
I cambiamenti quantitativi introdotti dalla profonda e strutturale rifunzionalizzazione dei sistemi produttivi dovuti alle ICT hanno indotto la divisione delle catene del valore in frazioni sempre più parcellizzate e la loro dispersione geografica. Ne è derivata una più accentuata parcellizzazione del lavoro, che ha quindi consentito alle imprese di allocare le varie fasi di produzione sulla base del costo dei principali fattori produttivi, quali ad esempio il lavoro e la tecnologia. Se quindi la globalizzazione implica l’integrazione funzionale verticale tra step produttivi disseminati lungo le direttrici economiche internazionali, per meglio comprendere le forme assunte da tale integrazione, quello delle catene del valore è un concetto chiave imprescindibile. Non è quindi anomalo che sia sorto un vero e proprio filone di ricerca dedicato alla Global Value Chain Analysis.[4]
Questo implica due questioni cruciali per la nostra contemporaneità. La prima è legata a dove conviene produrre per spendere meno: è chiaro che se posso produrre dove nessuno si preoccupa se inquino o dove posso pagare i lavoratori pochi dollari a settimana, comincerò a guadagnare sul risparmio all’osso dei costi, dal lavoro alla sicurezza alle materie prime estratte con le stesse modalità in posti analoghi. La seconda questione è giocoforza una conseguenza della prima: cosa mi conviene produrre e dove. La domanda non è banale e sulla risposta ad essa si sono investite migliaia di ore in ricerca economica, giungendo in qualche modo a uno schema che “funziona”, chiaramente solo per chi ne trae profitto, bilanciando i vantaggi economici con il valore aggiunto della produzione (che, ripeto, è tanto riferita ai servizi quanto ai beni).
Questa riflessione ha condotto ad esempio ad aprire i call-center per informazione o promoting degli USA in India; poco importa se la risposta ad un lavoro che prevedeva turni quasi esclusivamente notturni abbia causato un’impennata nel numero dei suicidi lì dove si aprivano le sedi. Ha portato a delocalizzare tutte le fasi produttive più rischiose per addetti ed ambiente in zone “grigie” di Asia, Africa e Sud America. Come qualcuno avrà già potuto intuire, se già all’epoca della nascita del mercantilismo la finanza aveva escogitato modi per moltiplicare gli investimenti, figuriamoci se oggi non ci sia modo di imbrigliare il vantaggio competitivo di breve e medio periodo all’interno di un meccanismo di previsione dei guadagni ed incapsularlo in un bel prodotto finanziario. Il costrutto teorico che consente di elaborare la strategia di investimento in questo o quel settore specifico o questa o quella produzione eseguita in un particolare contesto prende il nome di “Trading Tasks”, elaborata da due economisti, Grossman e Rossi-Hansberg.[5]
Essenzialmente il cambiamento di fase si fonda sul concetto che l’innovazione tecnologica, basata sull’automazione e sull’investimento in intelligenza artificiale, abbia ricadute non neutrali. In altre parole le capacità tecnologiche esistenti consentono all’innovazione di offrire sostituzioni più rapide e meno onerose in quei segmenti di produzione (tasks) che richiedono specializzazioni meno avanzate individuabili tanto nel settore manifatturiero quanto nel mercato dei servizi (operatori call-center o fattorini). In soldoni abbiamo uno scenario che implica la delocalizzazione di tutte quelle fasi produttive con un minore valore aggiunto, compiute da bassa manovalanza e, invece, una concentrazione delle fasi produttive a più alto valore aggiunto o cui necessita un’alta specializzazione o personale altamente qualificato (si pensi al management, alla progettazione ecc.) che al contrario non vengono delocalizzate.[6] In entrambi i casi, si evidenzia una correlazione stretta fra il livello di istruzione e specializzazione (skills) e caratteristiche socio-economiche della forza lavoro. La “naturale” conclusione è che la perdita di occupazione o l’erosione salariale è andata concentrandosi sulle fasce sociali medio-basse delle società a cosiddetto “capitalismo avanzato”.
In un tale scenario dove vi è un continuo scambio di informazioni, beni e capitali, il settore logistico ha aumentato a dismisura il suo peso complessivo nel processo di riproduzione capitalista, prova ne è l’immenso sforzo economico fatto in questo settore per diminuire progressivamente l’impiego umano, se non per quanto concerne la parte gestionale e manutentiva. Viene da chiedersi se le lotte dei facchini e dei riders, viste le ultime novità in fatto di robotica, siano delle reali conquiste o non siano forse un contentino in attesa di sbarazzarsi definitivamente delle risorse umane. Questo potrebbe avvenire prima di quanto non si creda: non parliamo ovviamente di cyborg o androidi ma di curiosi carrellini ambulanti a guida integrata GPS e rete 5G che cominciano a fare capolino per consegnare cibo e merci. Figli dei carrelli automatizzati dei magazzini industriali (che da tempo fanno a meno dei magazzinieri e dei facchini) che già dai tardi anni ’90 hanno cominciato a spopolare tra le imprese del Nord-Est italiano.
Quali scenari futuri ci riserva lo scintillante mondo della logistica e della robotica? Di scintillante ha veramente poco visto e considerato che è bastata una nave incagliata in un canale per far tremare le vene ai polsi tanto all’Europa quanto alla Cina. Attraverso il Canale di Suez passa infatti all’incirca il 12% del commercio globale, che include beni dell’industria alimentare, tessile, manifatturiera ed energetica. Pare che domenica 28 marzo ci fossero circa 10 milioni di barili di petrolio bloccati nel canale: il perdurare della situazione potrebbe avere ripercussioni sul prezzo della benzina in tutto l’Occidente.
Se vogliamo mettere in fila un po’ di numeri per capire non solo la centralità dell’infrastruttura logistica ma anche la sua attuale fragilità possiamo dire che domenica 28 marzo c’erano più di 300 navi bloccate nel canale in entrambe le direzioni, determinando perdite stimate in circa $400 milioni l’ora, $9,6 miliardi al giorno, di cui $5,1 in beni diretti a ovest, e $4,5 in beni diretti a est.
Qui si rischia di creare quell’evento che va sotto il nome di tempesta perfetta: peccato che ne accada una a semestre. Se cerchiamo di analizzare i processi con uno sguardo un po’ più ampio dei soli dati contingenti, vediamo come è la struttura stessa della gestione dei flussi e delle catene di valore che, con la sua immensa flessibilità ed efficienza, ha minato pesantemente il sistema. L’estrema efficienza ed elasticità della produzione di assorbire fluttuazioni anche ampie di domanda, ha praticamente reso “obsoleto” il concetto di scorta di magazzino. Molto più economico il just in time: se in 24-48 ore posso attivare e disattivare interi comparti o implementare la produzione, cosa me ne faccio di migliaia di metri quadri di magazzino? Se però una nave si incaglia, o un tifone spazza i mari per settimane, o una serie di scioperi finisce per mandare il sistema in fibrillazione (è successo a Natale: c’è ancora gente che attende pacchi finiti chissà dove), ecco che tutto il processo va in tilt. Tanto chi se ne frega: il sistema è capace di “ripararsi da sé”, al più si chiederà uno sforzo maggiore a quei pochi sopravvissuti alla scure dei licenziamenti, o si assumerà gente per una settimana giusto il tempo di rimettere in sesto la filiera.
Quanto il movimento conosce le pieghe del sistema logistico per immaginare come metterlo in crisi? Quanto l’intellighenzia movimentista riesce ad analizzarlo per individuare quali saranno le mosse future del capitale per blindarlo dalle azioni di protesta? Nel giorno dello sciopero della logistica lo slogan è stato: “Per oggi non comprate su Amazon”. Mi pare che si ignori un dato banale, cosa che la dice lunga sulla capacità strategica delle lotte. Ovviamente uno sciopero in un momento di piena attività fa danni seri, se avviene in un momento di rallentamento i danni sono assai contenuti: chiedere il simultaneo sciopero degli acquisti e della movimentazione merce appare un gioco a somma zero! Se da un lato il boicottaggio rimane un ottimo strumento – con tutta la contraddizione insita nel potere del consumatore e nell’implicita accettazione della società dei consumi – dall’altro dovrebbe essere condotto in maniera sistematica: non basta non comprare da Amazon per un giorno e magari comprare da un altro.
Gli eventi episodici, a meno di non avvenire in congiunture particolari, non hanno molta efficacia: se davvero si volesse incidere in maniera decisiva sul sistema c’è bisogno di ben altro di un giorno di astensione dallo shopping on line. Capire e conoscere il sistema, individuarne i punti deboli e imbastire un processo di aggressione lenta e di costante erosione della struttura, insomma ridare forza ai rapporti umani e di prossimità, non affidarsi permanentemente alla rete virtuale ma riconnettersi a quella reale dei rapporti di reciproca fiducia. Riconnettere la società più che connettere cose a caso in “reti solidali” che hanno il solo scopo di regalare informazioni che nella migliore delle ipotesi ci si ritorcono contro in chiave mercatale.
J.R.
NOTE
- Vedi Sassen, S., Le Città nell’Economia Globale, Il Mulino. La globalizzazione dell’economia, ha profondamente alterato il tessuto sociale, economico e politico degli stati-nazione fino a lambire le città. Sassen propone nuovi strumenti concettuali e di ricerca per analizzare le aree urbane come i luoghi di intersezione tra globale e locale per eccellenza. È oggi più che in passato evidente che numerose aree metropolitane hanno ormai più caratteri in comune con altre aree collocate in altri continenti che con i rispettivi contesti regionali o nazionali. Un’immensa opera di deterritorializzazione culturale accompagnata spesso dallo sradicamento sociale e l’allontanamento di intere comunità divenute “incompatibili” con l’impulso globalista di molte aree urbane.
- Vedi Hegel, W.G., Scienza della Logica.
- Porter, M., The Competitive Advantage of the Nations, 1989.
- Gereffi, G., & Fernandez-Stark, K. (2011). “Global Value Chain Analysis: a Primer”, Center on Globalization, Governance & Competitiveness (CGGC), Duke University, North Carolina, USA.
- Grossman, G.M, & Rossi-Hansberg, E., The Rise of Offshoring: It’s Not Wine for Cloth Anymore. url: https://www.princeton.edu/~erossi/RO.pdf
- Spence, M., The Impact of Globalization on Income and Employment: The Downside of Integrating Markets. Foreign Aff. 90 (2011): 28.